Editoriale

Marzia Duse, Giampaolo Ricci

Siamo nel 1956: due gruppi di ricercatori – uno negli Stati Uniti, a Buffalo, guidato da Noel Rose e Ernest Witebsky, e uno inglese guidato da Deborah Doniach e Ivan Roitt – dimostrano che alcune patologie della tiroide sono provocate dalla presenza di autoanticorpi anti-tiroide. In particolare, il gruppo americano riesce a riprodurre la malattia autoimmune in conigli immunizzati con estratti di tiroide autologa, mentre il gruppo inglese dimostra che nella tiroidite di Hashimoto sono presenti anticorpi contro la tireoglobulina. Si può dunque far risalire ad allora l’inizio delle conoscenze sulle malattie autoimmuni, quando ancora le conoscenze sui meccanismi del sistema immunitario erano limitate, le relazioni fra immunodeficienze primitive e genetica erano molto grossolane, limitate ai concetti mendeliani di trasmissione e del tutto ignote le relazioni tra immunodeficienze e autoimmunità. Tutto questo viene ben illustrato e documentato in un capitolo del lavoro della Commissione di Immunologia della SIAIP coordinata da Fabio Cardinale che ci mette in grado di comprendere gli stretti legami patogenetici fra immunodeficienze primitive (IDP) e autoimmunità. Diviene chiaro perché le manifestazioni autoimmuni, sebbene possano essere presenti in quasi tutte le IDP, siano di gran lunga più frequenti quando i linfociti T sono ridotti, ma non del tutto assenti, come nelle immunodeficienze combinate. Ma è stato lo sviluppo dei test genetici che ha consentito appieno di individuare in modo più preciso nuove forme e differenti basi patogenetiche. 

Un esempio paradigmatico di controllo genetico è quello esercitato dal gene AIRE (AutoImmune REgulator) presente sul cromosoma 21q22.3 sullo sviluppo della tolleranza verso il self. Questo gene promuove l’espressione, da parte delle cellule dell’epitelio timico, di una vasta gamma di antigeni ciascuno dei quali normale costituente di diverse cellule specifiche di organi e tessuti di vari distretti dell’organismo. Se questi epitopi vengono espressi, i T linfociti immaturi specifici li riconoscono come “self” ancor prima di uscire dal timo e in seguito, in periferia, saranno inibiti ed eviteranno risposte eccessive nei confronti del self. Se questo gene AIRE non funziona o funziona male, si assiste a un massivo movimento autoimmune che si sostanzia in una sindrome, l’APECED (Autoimmune PoliEndocrinopatia, Candidiasi, Ectodermal-Distrofia), che viene trasmessa con modalità autosomica recessiva. 

Il nostro primo numero 2021 della rivista apre dunque il nuovo anno con questo articolo di particolare spessore perché, come abbiamo visto, gli autori partono dalle manifestazioni cliniche autoimmuni e, attraverso l’identificazione dei difetti molecolari implicati, ce ne spiegano i principali meccanismi patogenetici e ci portano in ultimo a comprendere il razionale di un particolare approccio terapeutico. Oggi come oggi il grande sviluppo dei farmaci biologici ci aiuta molto a disegnare una sempre più valida terapia di precisione, non solo nel controllo delle manifestazioni autoimmuni delle IDP, ma anche in altre immunodeficienze. Questo è il lavoro su cui si impernia la FAD per ottenere i crediti ECM.

Sul tema di patologie meno frequenti, ma di grande impatto clinico è il lavoro svolto a cura della Commissione Rinosinusite e Congiuntivite coordinata da Michele Miraglia del Giudice. L’articolo “Cheratocongiuntivite primaverile oggi” ne sottolinea la difficoltà classificativa in quanto purtroppo tuttora non tutti gli specialisti hanno adottato i medesimi criteri, rendendo più complesso l’approccio a questa patologia ricordandoci che tuttavia la VKC (Vernal KeratoConjunctivitis) può risultare invalidante se curata male o tardivamente. L’inserimento tra le congiuntiviti allergiche di patologie più complesse per eziologia, evoluzione e gravità, come appunto la cheratocongiuntivite primaverile o VKC, la cheratocongiuntivite atopica e la congiuntivite gigantopapillare ha reso più difficile la gestione delle patologie allergiche oculari, determinando la necessità di uno stretto rapporto fra oculisti e allergologi pediatri. Gli autori ci forniscono una pratica guida al sospetto di VKC e quindi all’eventuale invio ai colleghi oculisti: la VKC deve essere sospettata: “1) quando la sintomatologia insorta in primavera persiste e/o peggiora in estate con l’aumento dell’esposizione al sole; 2) quando l’utilizzo di antistaminici, iniziati nell’ipotesi diagnostica di congiuntivite allergica classica, sortisce scarsi effetti; 3) quando i sintomi oculari persistono in luoghi o periodi in cui gli allergeni, cui i pazienti possono essere risultati sensibilizzati, sono assenti o a concentrazioni molto basse.” 

Infine, un ulteriore articolo sulla dermatite atopica, quanto mai attuale in quanto la terapia sta subendo un particolare impulso legato allo sviluppo di nuove terapie con farmaci biologici. Tiziana Maiello ed Elena Galli con il loro lavoro sugli “Inibitori topici della calcineurina e dermatite atopica: ritorno al futuro?” ci ricordano e sottolineano nell’ambito del panorama esaustivo dei possibili approcci con farmaci biologici di ultima generazione, di non dimenticare due punti cardine di tutta l’impostazione: innanzitutto non tutti i casi sono così gravi e fortunatamente molte forme di dermatite atopica meno impegnative possono giovarsi di terapie topiche e non solo steroidee. Inoltre, sottolineano che gli inibitori della calcineurina possono svolgere un ruolo importante nella gestione della dermatite atopica e possono essere quindi utilizzati anche da chi si è spaventato per il warning della FDA in quanto è stato poi ampiamente ritirato. Un articolo, un memo, utile e pratico. 

Nell’augurare una buona lettura a tutti, vogliamo ricordare il prossimo incontro in occasione del nostro Convegno Nazionale, ma non ci soffermiamo perché ve ne parla direttamente il Presidente nel suo Editoriale. 

Un abbraccio a tutti.

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